La collina del vento

La verità è che i luoghi esigono fedeltà assoluta come degli animali gelosi: se li abbandoni, prima o poi si fanno vivi per ricattarti con la storia segreta che ti lega a loro; se li tradisci, la liberano nel vento, sicuri che ti raggiungeranno ovunque, anche in capo al mondo”.
Con questa sentenza, in attesa dell’epilogo vero e proprio, si apre l’ultimo capitolo del romanzo “La collina del vento”. E’ il momento in cui gli ultimi segreti si sgretolano d’improvviso, come una frana inattesa che rivela al mondo, tra le macerie, tesori e scheletri celati per secoli e secoli. La collina del Rossarco è il centro del romanzo, e la terra sembra frusciare tra le dita del lettore con più insistenza delle pagine sfogliate nel corso della lettura. La terra, ed il suo rapporto con i custodi della collina, la famiglia Arcuri. Campi, sudore, Meridione, la lotta per farla propria. A prima vista sembrerebbero tutti temi che evocano ricordi di verismo, ma la tentazione dell’accostamento è forse fallace. I campi di sulla fiorita del Rossarco non sono “roba” di cui impadronirsi per aumentare potere come nel Mazzarò di Verga. Il rapporto tra uomo e natura qui non sfocia in una gerarchia che vede un possidente ed un posseduto, ma è più una simbiosi; non propende verso interessi economici, bensì la ricchezza dell’uomo nasce dal sentire propri i profumi seducenti della collina, i colori, i frutti, l’ulivo, il vino. La famiglia Arcuri se ne dedica con amore e determinazione, dalla fine del secolo XIX fino ai giorni nostri. Una devozione quasi irrazionale, non siamo alla stregua delle venerazione di Pan, ma neppure troppo lontani. Quattro generazioni si susseguono, lottando contro il potere economico e politico del tempo, sempre tramando per sottrarre loro la collina: il padrone del latifondo, il proprietario terriero che diviene podestà in epoca fascista, lo speculatore edilizio in tempi recenti. Gli Arcuri riusciranno sempre a resistere, almeno fino a quando si tratterà di affrontare altri uomini. Accomunati dalla “capa tosta”, da un legame indissolubile con la terra e con la propria famiglia, gli uomini si tramanderanno di generazione in generazione i segreti degli avi che li hanno preceduti, componendo pezzo dopo pezzo un puzzle che si presenterà completo solamente al termine della storia.
Più che a Verga, in effetti, risulta forse più suggestivo accostare Carmine Abate, in merito alle tematiche di “La collina del vento” e lo stile nel trattarle, ad alcuni lavori di Steinbeck. La partecipazione, meticolosità, amore nella descrizione dei luoghi, l’onore al tema della migrazione, la scelta di raccontare una saga famigliare, ricordano i primi omaggi dello scrittore americano alla California di “Al Dio Sconosciuto” o “I pascoli del cielo”, e alle dinamiche delle famiglie Wayne, o al romanzo “La valle dell’Eden”. Sarebbe curioso chiedere ad Abate se esista davvero una influenza riconosciuta di Steinbeck, o sia solo un riflesso.  Quale che sia la verità, Carmine Abate regala un romanzo intenso, dove si viene catturati dalla caparbietà, coerenza e forza dei protagonisti, ed impossibile risulta non cullare il desiderio un giorno di fiutare questo lembo di terra della Calabria. Anche vederlo. Anche toccarlo. Anche assaggiare i suoi frutti accarezzando con le dita un calice di Cirò. Anche, certo. Ma prima di tutto, fiutarlo. Annusarne l’odore che il vento porta alle narici, senza via di scampo. In mezzo a queste sensazioni, le tematiche dei nostri giorni, dal lavoro, alla lotta di classe, alla migrazione. Il tutto senza risultare mai noioso, ma contemporaneamente neppure superficiale. L’utilizzo alterno della forma del racconto impersonale e di quello in prima persona, per bocca dell’ultimo discendente degli Arcuri, chiede un piccolo sforzo al lettore nella ricomposizione dei fatti, e interrompe prima del nascere ogni rischio di monotonia nella narrazione. La focalizzazione interna in tante parti della storia, che sfociano sovente in gergo locale, comunque sempre facilmente comprensibile, aiutano ancora di più a sentirsi completamente “dentro” al romanzo, quasi di casa anche a chi, nella vita, la Calabria l’ha vista solo nelle cartine dei libri di scuola. Ci sarebbero altre cose da dire, come la capacità di cogliere, attraverso dialoghi e gesti, lo spostamento degli equilibri all’interno delle dinamiche coniugali nel corso delle generazioni. E, soprattutto, l’ottima serie di messaggi positivi che cuciono i legami tra i protagonisti e legano la trama: rispetto e comprensione dei diversi ruoli nella famiglia, sete di giustizia, orgoglio delle tradizioni. Ma in fondo basta dire che esse si riassumono tutte nella figura più carismatica dell’intero racconto, quella di Arturo Arcuri. L’unico, al termine del libro, del quale resteremo a chiederci se infine ha trovato la propria pace. E nonostante questo, non ci sono dubbi, il personaggio cui tutti i lettori vorrebbero identificarsi nella vita vera. Per ostinazione, forza d’animo, onestà, e la capacità di sognare e razionalizzare l’irrazionale.

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